Tratto da NEL NOME DEL FIGLIO - romanzo storico di Simona Bertocchi - Giovane Holden Edizioni .
Ogni giorno scrivo attingendo
alla mia memoria e alle mie conoscenze per narrare la mia storia alla corte dei
Cibo Malaspina. Gli occhi vedono sempre meno, rileggo a fatica gli epistolari
di famiglia, quelli amorosi, le copie degli atti sottratti, le relazioni dei
funzionari e militari di corte. Ho una vita da raccontare, ormai confondo il
presente con il passato, vedo figure antiche, sento la voce dei miei cari,
rivivo tutto sulla mia pelle, piango e rido nel mio viaggio nella memoria.
Immagini, voci, volti, odori, sensazioni si agitano nella testa: le grida e le
risate di Ricciarda, le sue lettere, i papi, i re, l’anello del cardinale, i
banchetti avvelenati, l’inchino dei mercanti, le poesie nei salotti, le teste
mozzate, gli occhi di mia figlia, il suo bacio con Giulio, le mani di Serperi
su di lei, il ghigno di Elena, i sorrisi di Caterina, l’abbraccio di Eleonora,
i patiboli, le campane a morte e quelle che annunciavano una nuova vita. Voglio
che il piccolo Giulio conosca la storia dei suoi genitori e sappia da quale
destino l’ho salvato; voglio che le vicende di Ricciarda, del cardinale e di
Lorenzo siano note a tutti e che tutti conoscano cosa si nascondeva dietro
quella figura di autorevoli reggenti. Ecco ora ho scritto tutto, ho inserito
anche le poesie tra resoconti di guerre e di morti.
Alla fine di quell’anno, non ricordo
bene il mese ma
faceva freddo, ci trasferimmo a Firenze nella residenza di Palazzo de’ Pazzi.
La neve
scendeva incessante da un cielo plumbeo, fiocchi di ghiaccio volteggiavano
vorticosi a coprire ogni forma di bianco cristallino, anche i rumori erano
ovattati, si udiva solo il ritmico rimbombare sul selciato degli zoccoli dei
cavalli.
Giulio,
con la mano gelida, spannava il vetro della carrozza per guardare fuori. La
neve si posava sul manto e sulla criniera dei quattro cavalli bianchi bardati a
festa con velluti e pennacchi e il marchesino aveva quello sguardo affascinato
che solo i bambini hanno quando nevica e osservava cose che solo i bambini
vedono.
Il
cocchiere, con urla e incitazioni, fece rallentare il passo agli equini che
sbandavano visibilmente sferzando il vento a capo basso. Il grigio e il bianco
erano gli unici colori che quella giornata mostrava eppure le due nobili
sorelle sembrava vedessero l’arcobaleno.
La
marchesa di Massa si stava trasferendo a Firenze dove sarebbe rimasta qualche
anno.
Era da
poco tornata dal matrimonio principesco della prima figlia Isabella con
Vitaliano Visconti Borromeo.
Ricciarda
e il resto della famiglia viaggiavano su diverse carrozze, in quelle più grandi
sedevano pomposamente la madre Lucrezia, la sorella Taddea vedova del conte di
Scandiano e i figli Eleonora e Giulio (che ai tempi avevano dieci e otto anni),
con le relative dame di compagnia, educatori e i nani più fedeli.
Con loro
si spostò l’intera corte composta da cuochi, maggiordomi, serve (tra cui mia
figlia Angelica), sarte, paggi, cappellano, scalco, credenziere, soprastante di
stalla, mulattiere, addirittura un falconiere.
Partimmo
di prima mattina e fu un azzardo con quel cielo pronto alla neve, ci avremmo
messo il doppio del tempo.
“Neve o
no, dobbiamo arrivare a palazzo prima che faccia sera, domani ci sarà il
ricevimento per il duca Alessandro e tutto dovrà essere perfetto,” mi disse
donna Ricciarda, come se dipendesse da me, la sua dama di compagnia.
La mia
signora mostrava un profilo severo con quel naso affilato e le labbra strette a
trattenere l’ansia che saliva fino a sbiancarle il volto, sul capo aveva una
corona di trecce dorate, stringeva leggermente lo sguardo sotto sopraccigli
sottili e non stava ferma con le mani. Con mio rischio e pericolo le sistemai
meglio l’ampio collo della mantella e sforzai un sorriso che lei neppure notò.
Le dissi
che saremmo certamente arrivate in tempo, in realtà non ci credevo, in cielo
sembrava scatenarsi una tempesta di neve e Dio solo sapeva se saremmo arrivati
entro sera a Firenze.
Le
sorelle si guardarono e si sorrisero furtivamente facendo attenzione a non
soffermarsi troppo in quel gesto complice, osservandole pensai a quanto
desiderassero giungere il prima possibile al Palazzo de’ Pazzi, non a caso
quella dimora sarebbe stata poi definita delle marchesane per la vita
mondana che le due nobildonne vi conducevano senza freni.
Non era
un segreto l’affettuosa complicità che Ricciarda aveva con il duca Alessandro
de’ Medici, anche se, in realtà, il buon duca cercava di non scontentare
nessuna delle due sorelle.
Proprio
come era successo negli anni trascorsi a Roma, anche a Firenze non si può dire
che in quella famiglia mancassero i soliti intricati scandali di corte. Tanti
ne avevo visti e tanti ancora ne avrei visti.
“Ci sono
malaspine che si possono liberamente abbracciare senza pungere” diceva di loro
l’umanista Ortensio Lando.
Nella
carrozza, che aveva da poco imboccato borgo Albizi, Ricciarda si sfogò con
donna Taddea: “Ho con me il nuovo diploma dell’imperatore,” disse mettendosi
una mano tra i seni e tirando fuori dal corpetto un documento. “È scritto tutto
qui, Carlo V, mi ha concesso di scegliere il successore tra i miei figli”.
Aveva un
sorriso strano, la stanchezza le dipinse in volto un’espressione quasi
diabolica.
“Leggi
Taddea, guarda la data: 7 aprile 1533. Lorenzo non dovrà sapere di questo
documento,” continuò riponendo il foglio dentro il corpetto. “Beatrice,”
aggiunse fissandomi severamente, “servirà un posto sicuro a palazzo per
custodire la corrispondenza e gli atti.”
Lorenzo, ora generale delle milizie dello Stato ecclesiastico e da un
anno anche Governatore Pontificio di Viterbo, era spesso assente dalla vita di
corte. Quel giorno, però, si fece trovare nel palazzo dell’allora via dei
Balestrieri per accogliere la famiglia e partecipare al banchetto in onore del
duca Alessandro. E pensare che fino a qualche anno prima il marchese di Massa
si recava molto spesso a Firenze e non sempre per impegni di rappresentanza,
diciamo che fu anche un assiduo frequentatore della vita mondana, sempre pronto
a buttarsi in qualche avventura con il suo compagno Ippolito de’ Medici,
attaccabrighe come lui.
Giulio tornò alla carica con le solite
richieste sul suo diritto
al feudo Malaspina, Lorenzo lo aveva indottrinato ben bene e l’ossessione del
padre era diventata quella del figlio.
Sdegnata
Ricciarda gli mostrò tutti i diplomi ricevuti (e comprati) dall’imperatore e
disse che se Giulio si fosse dimostrato ragionevole e obbediente un giorno
avrebbe avuto il suo marchesato.
Non
poteva finire che con un ricatto.
“Se mi dimostro ragionevole, madre?! Il
marchesato è destinato al vostro primo figlio maschio, quel figlio sono io! Io
vi sarei subentrato al raggiungimento dei vent’anni,” urlò tirando fuori la
copia del testamento originale ottenuto dal padre.
Seguì
una scena quasi teatrale, Giulio portò indietro il mantello e con una mano
sfiorò la spada, de Aguilar gli fermò il braccio e lo guardò con severità, ma
Giulio non gli badò.
“Il
testamento rogato da Ser Pandolfo Ghirlanda l’11 aprile 1519 citava che l’erede
universale del suo feudo doveva essere il primo figlio maschio, io, quel figlio
sono io madre e, se questi fosse morto senza lasciare eredi maschi il
patrimonio e il marchesato sarebbero passati al secondo figlio maschio,” disse
sventolando il documento davanti a Ricciarda, poi prese a leggere:
“Istituisse
herede universale il primo figlio maschio della prefata Donna Ricciarda et
morendo questo figliuolo primo senza figliuoli maschi legittimi et naturali,
instituisse il secondo. Avete falsificato senza ritegno notifiche e
comprato diplomi all’imperatore, per ultimo quello più assurdo in cui voi,
madre, siete in diritto di scegliere a quale figlio cedere il vostro stato e
togliete ogni condivisione con vostro marito”.
Quando
Giulio uscì dalla sala delle rappresentanze del palazzo ancora tremava e la sua
fragilità tornò nuda.
Subito
dopo Ricciarda mi chiese di scrivere a Pietro Gassani per redigere un’ordinanza
al fine di impedire a Giulio e a Lorenzo di entrare nel castello di Massa.
Quando
Giulio lo seppe si rivolse al padre con una missiva.
Padre,
Vi chiesi di poter incontrare Cosimo
de’ Medici e Andrea Doria per risolvere la questione in modo diplomatico, per
concludere alla scrivania di qualche palazzo la mia angusta questione di
oltraggio al diritto naturale ma, per come si è messa la situazione e per la
reazione folle della marchesa mia madre, seguirò
il vostro consiglio, agirò con le armi
affiancato dal capitano Venturini.
Servo Vostro.
Giulio
Mio
angelo,
sono
costretto a sposare Peretta Doria, gli interessi sono troppo alti, il supporto
dei Doria mi è indispensabile e con il principe di Genova e il duca di Firenze
potrò aspirare a ottenere di diritto il mio Stato. Governerò per il mio popolo,
porterò alla gloria Massa e Carrara. Inviterò artisti, poeti, musici. Mi
alleerò con illustri politici, signori e condottieri. 151 Oh vedrai mio angelo,
tornerà giustizia e dignità nel marchesato dopo il fango che mia madre vi ha
gettato; allora sarai libera, libera di recarti in qualsiasi corte e io ti proteggerò
sempre. Lo so che sorridi di tanto impeto, ti piace canzonarmi. Mio angelo, mi
hai lasciato da solo ad affrontare questo periodo assurdo, a prendere decisioni
improvvise, a trovare il bivio che non porta al precipizio. Tutto, ho vissuto
tutto: l’odio, la guerra, l’amore con un’intensità che stordisce. Hai ragione.
Non potrò mai avere Camilla, comprometterebbe il mio rapporto con i Doria anche
se è con lei che ho conosciuto la passione, quella che brucia la carne e fa
impazzire i sensi. Pazzo, ecco come mi ha ridotto quella diabolica creatura!
Sono un pazzo ossessionato da lei, dal suo corpo, sono incapace di resisterle,
devo berla e mangiarla per non morire. Eppure sempre più spesso mi mancano i
nostri silenzi, quel parlarci con gli occhi e le risate, sì Angelica, quanto mi
manca il suono della tua risata, e quanto vorrei tornare alle nostre fughe a
cavallo, quando vorrei parlare ancora con te e stringerti ascoltando la tua
voce. Non chiedermi che amore è il nostro perché non saprei risponderti. So che
non sei felice con il procuratore Serperi, so che piangi spesso e che anche i
tuoi ricevimenti blasonati non riescono a portarti gioia, lo so, ho le mie
fonti. Prima che avvengano le mie nozze troverò una scusa per passare da Parma
e potrò finalmente rivederti. Ho un disperato bisogno di te, mio angelo.
Tuo Giulio.
Mi bastò quella mattina per capire la complicità e l’intimità che legava
Ricciarda al cardinale Cibo suo cognato. Stavo pregando nella cappella quando
il castellano mi venne a chiamare dicendomi che la marchesa aveva ordinato una
carrozza diretta alla residenza di Carrara dove alloggiava il cardinale.
Abituata ai soliti cambi di programma dissi ad Andreani, podestà di Ricciarda,
di disdire l’incontro con i mercanti e chiesi di farli tornare il giorno dopo.
Mi guardò sgomento e trovò lo stesso sguardo rassegnato in me. Senza dire altro
ordinò il suo cavallo allo scudiero e tornò in città per sistemare ciò che
Ricciarda aveva scombinato. Non sapevo quale fosse la questione che voleva
affrontare con Innocenzo, per tutto il tragitto rimase in rigoroso silenzio
fissando il panorama fuori ma senza guardare. Come arrivammo scese di fretta,
un paggio timidamente ci disse che il cardinale dormiva ancora e Ricciarda si
fece strada da sola. Entrò nella camera da letto del cardinale, scostò le
pesanti tende e aprì le finestre. Gliene fui grata perché c’era un odore
insopportabile, quasi stavo per sentirmi male.
“Ricciarda,
mia adorata Ricciarda, perché tutta questa furia?”
“Gli
accordi con gli agenti dell’imperatore non sono stati rispettati, il nostro
feudo è ancora preda della violenza dei lucchesi, non accettano la sconfitta e
non sono servite le eque proposte di spartizione di confine. I ribelli passano
non curanti dal territorio estense e attaccano ancora i Malaspina e adesso ci
si mettono anche le milizie di Montignoso a dare manforte a Lucca, è un paese
piccolo che fa troppo rumore quello. Non abbiamo uomini da utilizzare per
questa battaglia che dovrebbe essere già terminata,” disse lanciata in un monologo,
parlava guardando fuori dalla finestra girandoci le spalle.
“Manderò
subito Girolamo Testa da Siena, uno dei miei segretari, a parlare con
l’imperatore e scriverò al duca di Ferrara,” rispose alzandosi e mostrandosi
con noncuranza in camicia da notte. Con i pochi capelli arruffati e quelle
gambette storte e ossute, proprio non riuscii a immaginare di trovarmi davanti
a un cardinale. “Al duca di Ferrara ha già scritto mia madre, tu pensa a
trattare con l’imperatore o ci penserò io e con i miei metodi. Ho saputo che
ieri all’osteria del borgo qualcuno diceva che sono stati uccisi altri nostri
soldati in Lunigiana, i nostri uomini non erano pronti a un assalto dei
lucchesi. E non erano i soliti discorsi da ubriachi,” disse la marchesa
avvicinandosi per guardarlo meglio negli occhi. “E vestiti. Sei inguardabile!”
Nel tragitto che ci riportò a Massa notai che era
ancora più silenziosa che all’andata, questa volta però non era arrabbiata o
impaziente, era totalmente assorta nei pensieri, elaborava, faceva calcoli, era
pericolosa. Un’ora dopo mi fece chiamare il Gassani e lo ricevette nella Sala
Picta. “Dite al Consiglio che chiedo di abbattere le abitazioni costruite sotto
la Rocca in modo che la difesa sia più agevole. Inoltre, molto illustre
camerlengo, sentite il mio agente Bavastro se ha accresciuto l’imposta per la
frangitura delle olive, abbiamo avuto un’ottima raccolta e di certo sarà una
tassa che tutti si potranno permettere.” “Fatta eccezione di chi vi ha sempre
servita con devozione,” sorrise maliziosamente Pietro Gassani. “Naturalmente,”
rispose Ricciarda facendosi più vicina. L’arpia! Come poteva Massa amarla?
Finalmente,
fui pronta a incontrare Ricciarda.
Giunsi alla fine della salita che porta al castello,
non so neppure come feci a percorrere tutta la strada della Fortezza, mi
sorreggevo al bastone e quel tragitto richiese tutte le mie ultime forze. A
testa bassa proseguii, il portone era spalancato, i soldati di Alberico erano
schierati e impettiti, tutti molto giovani e arroganti; uomini a cavallo
entravano e uscivano dal cortile; gran dame passeggiavano lungo il porticato,
non sapevo chi fossero, il nuovo castellano, Ricciardo Lombardelli, urlava
ordini ai servi e si sentiva il rumore del lavoro dei fabbri, deglutii, presi
coraggio ed entrai.
Due lance mi si pararono davanti per impedirmi di
proseguire.
Fu allora che la vidi.
“Lasciatela entrare,” ordinò la vecchia marchesa. Sì,
era proprio diventata vecchia, stava curva nel suo abito di raso ricamato che
ormai indossava goffamente, una parrucca sovrastava quel volto pallido e
rugoso. Ero al cospetto di una marchesa in decadenza che non voleva arrendersi,
non era ancora finita, rifiutava l’idea di lasciare il suo stato, di non
spaventare più i suoi rivali, di non amministrare più il marchesato. La
leonessa ruggiva ancora. “Cosa vuoi?”.
“Volevo uccidervi ma non ne ho più le forze.” Sorrise,
provò a essere sfrontata ma non ne era più in grado, gli occhi lucidi colmi di
pianto la tradirono. “Come vedete sono ancora viva,” dissi senza voler suscitare
reazione, era più un pensiero tra me e me. “Dovevo farlo, dovevo farvi
giustiziare, è la legge, una questione di Stato, chi tradisce il suo padrone
paga e io non potevo mostrarmi debole davanti alle altre signorie, dovevo
dimostrare di essere temuta quanto un uomo al potere.” Aveva una voce flebile e
vagamente rauca. “Io non ho mai avuto padroni Ricciarda, sono sempre stata
libera e voi mi avete scelto per questo,”.
“È vero. Se non sei venuta a uccidermi cosa sei venuta
a fare fino a Massa? Ho saputo che anche Angelica è morta.” Quel anche
racchiudeva tutte le sciagure che erano successe negli ultimi anni, soprattutto
la morte di Giulio. Mi lesse nel pensiero e proseguì: “Ho provato a salvarlo,
non sono stata io a tradirlo, ho sofferto credimi Beatrice, ho sofferto tanto”.
“Me lo prova il fatto che non avete alzato un dito per
salvare vostro figlio e non solo in punto di morte.”
“Quando sono diventata marchesa mi sono trovata
incastrata in un intreccio di alleanze, questioni di confini, guerre da decidere,
matrimoni politici. Non è stato facile gestire un marchesato governato da donne
e affrontare tutto questo.”
“Avevate un marito e un figlio, era Giulio il vostro
erede, è a lui che dovevate rendere lo stato. La vostra avidità e la sete di
potere vi ha resa cieca, vi ha fatto varcare ogni limite, vi ha fatto perdere
la coscienza.”
“Basta,
che ne sai?”
“Ero
con voi marchesa, ero con voi…” Mi voltò le spalle coprendosi con il mantello,
un gesto a cui seguivano urla e ordini, questa volta, però non urlò, rimase in
silenzio a guardare il mare in fondo alla vallata.
Mi sono
sempre ripromessa di vivere
abbastanza da essere presente ai funerali di Ricciarda e così è stato.
Mi sono sempre ripromessa di vivere abbastanza da
essere presente ai funerali di Ricciarda e così è stato. Era sopravvissuta a un
figlio, al marito, al cognato e amante con i quali aveva portato avanti una
vita di guerre, alleanze, vendette, sotterfugi, tradimenti, addii e ritorni.
Del suo popolo in pochi si inchinarono davanti alla sua bara. Le furono invece
accanto nell’ultimo viaggio il figlio prediletto Alberico visibilmente
commosso, la figlia Eleonora, con un velo fittamente lavorato che impediva di
vedere lo sguardo vitreo e inespressivo, la figlia Elena, combattuta tra l’odio
e l’amore per quella donna che le aveva manovrato la vita. Seguivano la solita
parata di nobili, cardinali, principi e signori. Se ne stavano tutti in
silenzio intorno al feretro che conteneva il piccolo corpo di quella grande
donna che aveva stretto alleanze e guidato guerre a distanza con i nomi più
potenti della storia italiana del Rinascimento e che, pur di salvare il suo
stato, aveva venduto l’anima al diavolo.
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